DOMENICA DELLE PALME - DOMINGO DE RAMOS
* Hoy – 13/04/2014 – Festejamos el DOMINGO DE RAMOS
Con la alegría de la entrada triunfal de Jesús en Jerusalén, quiero compartir con Vos, a partir de hoy (y cada día de esta Semana Santa), una breve reflexión. Es algo, que no pretende ser un “sermón”, sino una sencilla invitación personal a “parar” unos instantes y “pensar”... Es que los hechos que “evocamos”, (como todo lo que nos sucede), siempre influyen en nuestras vidas y de nosotros depende darles el mejor de los sentidos... Hoy, por ejemplo, todos oímos exclamar: ¡“Hosanna”!!!
Por ello debiéramos al menos preguntarnos: y eso ¿qué significa?
La palabra “hosanna” es un término hebreo ( הושענא )que significa: ¡SÁLVAME AHORA...!!! pero que con el tiempo fue transformándose en un saludo de aclamación y bendición...
En la Fiesta de los Tabernáculos (“tienda” “morada”) los hebreos solían cantar el gran «halel», (los Salmos 113-118). Durante esa ceremonia uno de los sacerdotes entonaba el salmo y, a intervalos, la multitud agitando ramas de olivo y palmera, gritaba: «hosanna», que significaba “Sálvanos, ahora, Señor”...
Por su significado, cuántos ¡“HOSANNA”!!! (¡¡¡ S O S !!!) debiéramos elevar al cielo, tanto hoy, como en cada uno de los días de nuestra vida...
Cordialmente
Franco. J. B. – TANDIL
fjburelli@gmail.com
EL BURRITO del domingo de ramos
(Cuento enviado por el Padre NenoContrandesde Kinshasa, Congo, al amigo Roberto Zaniolo, anticipándole (mientras @úntenía unas horas de electricidad) sus cordiales auguriosPASCUALES…)
Te cuento algo al respecto del burrito que usó el Señor, para su entrada a Jerusalén…
Cuenta la leyenda que después de la fiesta el burrito volvió a casa y le contó a su mamá burra los aplausos de los que había sido objeto y de cómo la gente había hasta puesto unos preciosos mantos bajo sus cascos…
Mamá Burra, no dijo nada…
Pero, el viernes siguiente le dijo a su hijo que rehiciera el paseo para ver en qué había terminado el Fulano ése, que había llevado triunfalmente en su grupa unos pocos días antes…
El animalito, obediente, fue; pero volvió totalmente turbado…
-Madre, el Fulano ese, subió a pie hasta la cima del Calvario y lo azotaban cuando avanzaba demasiado lentamente…
-Borrico mío, le dijo la Madre, eres realmente un burro, entiendes las cosas en retardo. Pero así y todo no eres tan bestia como los que te ponían sus vestidos bajo tus patas y de seguro no los viste camino al Calvario…
Date: Fri, 11 Apr 2014 18:49:37 +0100
> From: nenocontran@yahoo.fr
> Subject: BONA PASQUA da Kinshasa
> To: amissi-mondo-veneto@hotmail.it
>
> Visto che la corrente funziona, ti anticipo i miei più cordiali auguri pasquali. Addirittura prima della domenica delle Palme, secondo la storiella che accludo e che forse già conosci,
perchè mi pare venga all'America latina. Auguri d'ogni bene, anche per la pena che ti dai nell'incoraggiare i contatti.
> P. Neno
> P. Neno Contran, Kinshasa
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> A proposito dell'asinello con cui il Signore entrò a Gerusalemme. Dopo la festa tornò a casa e a mamma asina raccontò degli applausi di cui era stato oggetto e che la gente aveva perfino messo dei drappi sotto i suoi zoccoli.
> "Asinello mio - gli disse la madre -. Sei proprio della mia razza, capisci le cose in ritardo. Ma non sei bestia come quelli che ti hanno messo dei drappi sotto gli zoccoli e che certamente non hai visti sulla strada del calvario"!
>
L’UMILE CAVALCATURA 1
«Ecco, il tuo re viene, mite, cavalcando un’asina, seguita dal suo puledro» (Mt 21,5). Siamo soliti intendere l’ingresso di Cristo a Gerusalemme, portato da un’asina, come un gesto polemico verso i conquistatori che su ben altre cavalcature celebravano i loro trionfi, e insieme come il segno del suo pacifico imperio. Può darsi che queste motivazioni dell’umile trionfo di Cristo siano esaurienti, ma può anche darsi che i segni di questo episodio accennino ad altro e a qualcosa di più importante per noi. Per comprendere l’insieme dei significati di questo episodio, è necessario completare la scarna narrazione dell’evangelista Matteo con quegli elementi che sono nelle corrispondenti relazioni degli altri evangelisti, soprattutto in quella di Giovanni.
Nel testo di Mt 21,1-11, Cristo entra in Gerusalemme cavalcando un’asina, la folla l’applaudisce e stende mantelli e rami di alberi e grida: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Giovanni precisa che i rami erano fronde di palma, e aggiunge un particolare importante per la comprensione dell’episodio: tra la folla erano presenti dei Greci, e a loro Cristo dice: «Se il chicco di frumento non muore nella terra in cui è caduto, rimane solo, ma se muore, gran frutto esso reca. Chi ama la sua vita la perde, chi odia la sua vita in questo mondo la conserva per la vita senza fine... Io quando verrò innalzato come offerta sacrificale trarrò tutto a me».
Queste parole, rivolte a dei Greci, richiamano un’immagine tratta dalle celebrazioni misteriche di Dioniso e Demetra. Il genere umano sorto dalle ceneri dei Titani che avevano divorato Dioniso, risulta composto di due contrastanti elementi: uno titanico, materiale e carnale, uno dionisiaco, divino. L’uomo vive un interiore contrasto tra un elemento perituro e terreno, e un elemento spirituale imperituro e celeste, l’uomo si sente figlio della terra e del ciclo stellato. Da questa percezione, che opera nelle profondità della coscienza umana, sono sorte prima della venuta di Gesù Cristo due forme di religiosità: una che, considerando il corpo come sepolcro dell’anima, ordinava la ricerca dello spirito verso la separazione dell’elemento superiore da quello inferiore, dell’elemento divino da quello terrestre, caotico. Questa via segue l’impulso ascensionale della coscienza verso lo Spirito.
L’ebraismo, religione del Padre, cerca di riordinare il caos della vita inferiore con l’adempimento dei comandamenti divini, della giustizia, delle volontà del Padre supremo. Altre forme di religiosità hanno posto l’accento sull’assoluto positivo dello Spirito e sull’assoluto negativo della materia, stabilendo come mèta suprema la separazione dalle apparenze effimere della manifestazione e la fusione dell’io singolo personale nell’Io supremo e assoluto del Divino. L’altra forma di religiosità mette l’accento sulla materia, sul fuoco creato e aspira a non distaccarsi da esso mettendo da parte le aspirazioni a una vita centrata sulla conquista di un io cosciente e personale.
La prima tendenza aspira alla identificazione della coscienza individuale con la coscienza assoluta del Dio supremo, o mediante l’adempimento dei voleri dell’Altissimo, ebraismo, o mediante la relativizzazione delle apparenze create e la fusione con la coscienza assoluta del Divino. Nell’uno e nell’altro caso l’uomo si sente il servo dell’Eterno, di fronte al quale abdica alla propria volontà e alle proprie vedute.
La seconda tendenza costituisce il ripiegamento verso l’inerzia del creato, è la pulsione fusionale che cerca la quiete nelle strutture dalle quali un essere è formato e ove può vivere un’esistenza non turbata da mutamenti.
Queste due tendenze sono state raffigurate dalle immagini del Grande Padre, pulsione evolutiva e ascensionale, e della Grande Madre, pulsione fusionale, ricerca dell’omogeneità, dell’identificazione nell’indistinto della natura, della massa, del gruppo. Con Gesù Cristo appare la religione del Figlio, che non abolisce né la religione del Padre, né quella della Madre, ma le trascende nella superiore realtà del Figlio, Figlio appunto del Padre e della Madre, del Cielo e della Terra, della Natura e dello Spirito. La spinta ascensionale si dilata e abbraccia le realtà terrestri, la spinta orizzontale viene orientata verso l’alto in un movimento non di negazione ma di trasfigurazione della terra.
Ed ora torniamo alle figure significative dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: l’asino, il chicco di grano che muore e risorge, i rami della palma. L’asino è l’animale collegato con le divinità infere, Naiirrita nell’India, Seth e Tifone in Egitto, o della fertilità come Priapo e Sileno; lo troviamo nel culto di Cerere e di Vesta quale animale sacrificale. L’asino cavalcato da Cristo ci riporta al culto della Grande Madre e a quelle espressioni del mistero cristiano che perpetuano, sia pure sublimandoli, dei gesti e delle parole proprie della religione della Madre come: mangiare la carne e bere il sangue della Vittima.
L’immagine del seme di grano che, morendo, accresce la vita è collegata al culto di Demetra, la dea della fecondità e dell’iniziazione al mistero della vita. La palma, simbolo di vittoria e di rigenerazione, lunare nelle sue foglie, solare nei suoi frutti unisce le due nature nel suo midollo.
Asino, chicco di grano, palma, richiamando il mondo religioso della Grande Madre, ci rivelano il significato dell’ingresso del Figlio a Gerusalemme, la città del Grande Padre: esso costituisce il passaggio storico dalla religione della paternità a quella della fraternità, dalla legge del rigore alla legge della misericordia, da una morale di sottomissione a un’etica di liberazione ed è in questo passaggio che il Figlio modifica lo statuto della morte nel mondo, e assumendo volontariamente la propria morte introduce la comprensione della morte come trasfigurazione, come morte della morte.
La morale della misericordia subentrata al rigore della religione del Padre, anche se i suoi effetti non sono stati sempre evidenti, ci indica che il Dio della cristianità è insieme Padre e Madre, e che arreca la salvezza agli uomini e alle donne, forse più particolarmente alle donne, perché è l’animico femminile che è venuto a redimere e a glorificare nell’umanità.
1 Giovanni Vannucci, «L’umile cavalcatura», Domenica delle palme, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 60-62.
Col nostro fardello, sotto la Croce 1
Isaia: 50, 4-7/ Filippesi: 2, 6-11/ Matteo: 26, 14-27-66
Ogni anno ascoltiamo questo racconto e sentiamo – o almeno io sento - il bisogno di farci largo tra i sentimenti ormai quasi meccanicamente prodotti dalla circostanza liturgica, dalle reazioni devote che hanno radici perfino nell’infanzia, per cogliere, se possibile, il nucleo misterioso e potente del messaggio che da questo racconto ci viene. Si avverte subito, davvero, come il mistero di Gesù, figlio dell’uomo e figlio di Dio, sfugga ad ogni possesso, ad ogni definizione e si collochi nel cuore stesso della storia tanto che nemmeno i ministri della Chiesa possono presumere di tradurne il senso in modo pieno alla coscienza umana. Dove si trovi questo luogo in cui Gesù è crocifisso, dove si perpetui questa presenza lungo i secoli e nello spazio è possibile dirlo solo in base ad un discernimento della coscienza che non ha segnaletiche obbligate. A me pare di poter dire che il luogo in cui questo evento è avvenuto e perennemente avviene è quello in cui una creatura umana che ha creduto fino in fondo all’amore, proprio perché ha creduto all’amore, si trova nella più assoluta solitudine. Ciò che colpisce in questo racconto, se appena appena andiamo al di là della patina sacra che ormai ce lo rende accettabile e scontato, è la progressiva solitudine di Gesù di Nazaret; una solitudine che rende all’improvviso insignificante l’amicizia, perfino i rapporti caldi tra maestro e discepolo. Gesù si trova anche solo dinanzi a Dio: «perché mi hai abbandonato?». È una solitudine dove, veramente, c’è solo l’amore e il fallimento storico dell’amore. Non dimentichiamoci che questa storia si chiude con un sigillo messo sopra una tomba. La fede dice che quel sigillo si è spezzato, che questo figlio dell’uomo che ha creduto all’amore fino a dare totalmente la sua vita, fino a separarsi, passo dopo passo, anche dai suoi discepoli più cari, quest’uomo è risorto e Dio lo ha costituito Signore. È questa la luce misteriosa che separa il Gesù che appartiene a tutti, soprattutto a coloro che sono caduti in disperazione a causa dell’amore, e il Gesù della resurrezione che certo e per tutti ma è conosciuto soltanto attraverso la fede. È giusta cosa, rispondente alla sapiente pedagogia di questa settimana santa, fermarsi a prima di quel sigillo senza spezzarlo, perché il mistero reale di Gesù è in quel luogo. La fede più profonda, a mio giudizio, è quella di cui ci è testimonianza il Vangelo di Giovanni che non racconta la resurrezione ma che identifica l’esaltazione di Gesù con la sua crocifissione nella solitudine del Golgota, perché è in quel momento che l’amore tocca il limite del possibile, nella frana progressiva di tutti gli altri valori (non ci dimentichiamo di questo!), perfino del rapporto con il Padre.
Ogni anno allora si torna sotto questa croce con un fardello di esperienze nuove. I primi cristiani chiamavano la loro fede «la vera filosofia» e forse sbagliavano. Noi intendiamo per filosofia altra cosa, ma se per filosofia si intendesse quell’insieme di risposte o quella risposta che fa luce sul mistero ultimo dell’esistere, questa è l’unica filosofia perché la risposta che ci viene data non è ferma in nessun concetto ma è come conglobata, per intensificazione estrema, in un evento che è una morte: un evento che ci uguaglia tutti, che è veramente il comune denominatore umano, là dove l’essere confina nel nulla e forse scompare nel nulla; secondo molti atteggiamenti spirituali, la morte è una linea che ci uguaglia tutti e tutto ciò che favoleggiamo oltre quella linea acquista senso soltanto per la fede che Dio ci può dare. Ma quella è la linea in cui tutti siamo uguagliati, è l’universale olocausto in cui tutti ci troviamo. Ebbene, si può arrivare a quel punto per forza d’amore. Questo è il significato di Gesù. Quando si arriva a questo confronto, con il fardello delle esperienze, troviamo una luce. Non ci dimentichiamo, ed è questa la grandezza e la solennità perfino del rito che stiamo celebrando, che ciò che ci salva da quella linea oscura, da quell’orlo del nulla è l’organizzata dissipazione dell’esistere, è la faticosa omertà nel dimenticare, che poi chiamiamo civiltà, è l’organizzazione dell’esistenza che abbia senso in se stessa e rimuova ciò che minacci la nostra condizione dall’improvvisa onda nera del non-senso. Tutto cascherebbe!
Ecco perché ci aggrappiamo alle scenografie quotidiane - i grandi o i Papi che viaggiano, i governi che litigano - cercando un senso e trovandolo perché abbiamo compiuto una rimozione di fondo, la domanda che ci inquieterebbe e che metterebbe all’aria la nostra costruzione. In questo momento, però, come dimenticare i volti, le parole di quelle moltitudini dell’America Latina che hanno fatto festa e sono tornate nel buio, quegli indios che hanno nella pelle secoli di oppressioni e di emarginazioni, che nel loro candore e nella loro fede religiosa hanno applaudito ma son tornati nell’abiezione, nella solitudine? Lì è Cristo, il figlio dell’uomo. E quei poveri giovani che avevano sperato e sono stati mitragliati e scacciati? Avevano sperato! Essi sono nella miseria, nella disperazione o sono in carcere. Ivi si perpetua questa passione. Ovunque la speranza pura, quella elementare, quella che è tenuta su dallo stesso battito del cuore che vive, è calpestata, ivi c’è quest’ora di cui abbiamo parlato. Che senso ha? La mia fede quindi mi collega a questi lembi dell’esperienza umana denudata che non riesce ad essere integrata in una civiltà di cui giustamente a volte andiamo fieri ma di cui vorremmo vergognarci se dicessimo che essa dà senso a tutto ed è il senso del vivere. C’è un residuo, che va oltre i margini delle chiarezze che ci costruiamo in base al nostro amore per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza, un residuo che nasconde in sé la folgore che annienta tutto. Può essere sufficiente un nulla perché questo avvenga. E come non portare sotto questa croce del Solitario assoluto, che perfino i suoi discepoli abbandonarono, che sentì su di sé perfino chiuso il cielo del Padre, anche chi non ha retto, per amore dell’uomo, allo spettacolo del mondo? Noi siamo sconvolti per il suicidio di un testimone dell’olocausto come Primo Levi, che abbiamo amato e amiamo perché ha saputo ricordare con altezza e dignità ciò che è impossibile ricordare senza sgomento e terrore. Lui che ha vissuto l’inferno, non ha retto a questo mondo «concentrazionario» che stiamo costruendo perché - non dimentichiamolo! - la nostra storia sta tra due campi di concentramento e di sterminio: quello che egli visse e quello che potremmo vivere da un giorno all’altro nel futuro prossimo. Ci può essere qualche coscienza - e se è nobile, questa coscienza è particolarmente tentata – che dopo aver creduto nella possibilità di eliminare le condizioni del terrore si accorge che queste non sono mutate e cede. Ci sono disperazioni che sono l’altra faccia dell’amore. Ci sono disperazioni di egoisti frustrati ed esse non suscitano sgomento ma pietà, ma ci sono disperazioni che avvengono all’altezza dell’amore ed esse suscitano ammirazione perché sono sotto questo stesso segno. Certo noi dobbiamo continuare a distinguere quel che è lecito e quel che non è lecito e dobbiamo ripetere con forza che non è lecito abbandonare la vita. Ma detto questo, fatte salve le nostre regole morali, portate a fondo le nostre distinzioni tra bene e male, non ci dimentichiamo che c’è una zona proibita dove la coscienza sperimenta quello che noi non sperimentiamo, che è sotto questo segno. Chi molto ha amato è in pericolo perché può disperarsi. Chi non ama, stia tranquillo, arriverà al termine senza grandi tribolazioni. Chi ama è nell’estrema tentazione. In questo momento io rendo onore e omaggio, in nome della croce, a tutti coloro – e sono stati tanti - che non hanno retto allo spettacolo di un mondo che hanno amato e che è sembrato inguaribile, condannato al terrore, alla ferocia, alla spietatezza.
Come vedete, è possibile entrare in questo spazio santo con tutto il bagaglio delle nostre emozioni e dei nostri traumi e non per risolverli in un pacifico grido di fede ma per portarli dentro di noi, senza lasciarsene schiacciare, in attesa di un senso. La fede diventa favola insopportabile quando appiattisce le dimensioni dell’esistenza, le sbriga subito con facilità da ragioniere, ma quando noi, con queste cose nel cuore, ci mettiamo dinanzi a Dio dicendo: dovrai renderci conto degli uomini migliori che se ne vanno e degli uomini peggiori che ci governano, dovrai renderci conto dei bambini schiacciati dalla ferocia dei dittatori... Quando diciamo questo, non siamo dei bestemmiatori. Forse siamo vicini alla bestemmia di Giobbe, ma la preghiera più alta è vicina alla bestemmia più alta: un capello solo le separa.
Dobbiamo tenere nel cuore questi sconvolgimenti dello spirito perché è proprio qui che in qualche modo ci facciamo solidali con questa crescita del mondo, con questa peregrinazione del mondo verso l’esodo finale, verso l’approdo che noi contempliamo con fede. Dobbiamo essere solidali con tutti coloro che hanno osato amare e proprio per questo sono stati toccati dal terribile momento della disperazione. Anche Gesù ha gridato, sotto il cielo dove il Padre sembrava assente. Noi stiamo al di qua della linea, rispettiamo tutto ciò che avviene nella sfera dove la coscienza entra quando è solitaria perché innamorata. Con questa solidarietà verso i fratelli che hanno sofferto la tentazione estrema, rinnoviamo la nostra fede in Gesù che, primogenito di coloro che hanno amato fino in fondo, ha potuto, per decisione di Dio, ribaltare la storia ed assicurarci che coloro che hanno amato, comunque abbiano amato, comunque abbiano chiuso la loro vita, sono interni a questo disegno di salvezza che noi affidiamo, in questo momento, al cuore del Padre che è nei cieli.
1 Ernesto Balducci, «Col nostro fardello, sotto la Croce». Omelia pronunciata alla Badia Fiesolana la domenica delle palme. Pubblicata in “Gli ultimi tempi”- Vol.1° anno A 1985/1986 o 1988/1989 - Borla editrice, 1998; pag. 166-170.
La salvezza olistica
Siamo finalmente alla Domenica delle Palme. Quest'anno tutti i cristiani e tutte le cristiane del mondo festeggeranno lo stesso giorno la Pasqua per una coincidenza del calendario giuliano con quello gregoriano.
Se pensiamo alla Pasqua, subito ci vengono in mente immagini relative alla rinascita, alla primavera, l'intero creato che si rigenera e poi l'uscita d'Israele dall'Egitto, la resurrezione dai morti di Cristo Gesù. Questa festività ebraica nasce non solo come ricordo della promessa, poi mantenuta, fatta da Dio al popolo d'Israele di salvarlo dalla schiavitù d'Egitto: molto probabilmente era una festa già in uso precedentemente nei popoli medio-orientali antichi per celebrare la rinascita della natura che porta con con sé la primavera. Infatti, non a caso, la Pasqua si festeggia dopo il primo plenilunio di primavera. Però prima della primavera abbiamo l'inverno.
L'inverno nell'immaginario collettivo è colorato di grigio. È la stagione del freddo. Nei campi ci sono pochi ortaggi coltivabili. Gli alberi sono spogli. All'essere umano viene in mente la morte e la desolazione, la carestia e la fame. Per chi vive nelle grandi città, o almeno nei quartieri ricchi, molto probabilmente tutto ciò è lontano, al massimo è un racconto dei propri nonni, poiché nei negozi c'è la possibilità di trovare ortaggi di qualsiasi stagione. Tutta questa abbondanza ci disorienta. Oggi non riusciamo a capire perché annebbiati dall'abbondanza.
Questo disorientamento è stato ancora più palese in questi anni di crisi di economica e sociale. L'abbondanza viene meno. Inizia l'inverno culturale, sociale ed economico della nostra cara e vecchia Europa. Quello che succede oggi succedeva anche nella Gerusalemme di Gesù di Nazareth. Certo le cause della crisi politico-sociale dell'epoca erano ben diverse, ma gli israeliti dell'epoca erano in attesa del loro messia, del capo politico che avrebbe cacciato via i romani dalla Palestina. Questo mi ricorda molto la situazione politica attuale della nostra Europa, ma anche la vita sociale contemporanea. La ricerca spasmodica, quasi ossessiva, del messia politico che ci salvi dalla crisi economica. Invece Cristo non è questo. Cristo è molto di più.
Il Messia cristiano propone e indica una via ben diversa e chiama ognuno e ognuna di noi alla cambiamento. Alla salvezza portata dalla morte e resurrezione di Gesù si accede sì per fede, ma poi questa fede deve portare inesorabilmente alla trasformazione dei nostri cuori, delle nostre anime e delle nostre menti. Anche i nostri corpi poi diventano mezzo per professare la nostra fede in Cristo Gesù. Il messaggio messianico portato da Gesù è un messaggio di salvezza olistico. La salvezza e il rinnovamento non riguarda solo noi uomini e donne, ma riguarda tutto il cosmo. Tutto in lui viene rinnovato. Invece quali direzioni sta prendendo l'umanità? Non certo verso il rinnovamento. Lo possiamo vedere tutti i giorni nelle nostre città e nelle nostre campagne. Ingiustizia e inquinamento sono ovunque. Proprio ricordando la salvezza olistica di Gesù Cristo, non possiamo disunire la Giustizia dalla Salvaguardia del Creato, poiché senza l'una non c'è l'altra. Senza giustizia per i popoli oppressi non può esserci una politica ambientale che tuteli le grandi foreste dell'area equatoriali. Senza giustizia e annuncio dell'evangelo alle popolazioni della Campania, non potremo mai risolvere il problema dell'inquinamento di quelle terre e sconfiggere il male, cioè la camorra e tutte le altre mafie.
Ecco allora l'Evangelo e la fede in Cristo Gesù ci devono assolutamente portare alla trasformazione delle nostre vite. L'Evangelo è la nostra chiamata ad usare tutti i nostri strumenti spirituali, mentali e materiali, per essere promotori e creatori di Pace, Giustizia e Salvaguardia del Creato.