Un’onda lunga amara

Vista dall’estero, con gli occhi dei nostri emigranti italiani, questa sembra essere una triste scena: la parabola della nostra Italia

 

 

di Renato Zilio, corrispondente da Londra

Sembra di trovarsi proprio sotto la croce del Cristo, mentre i soldati romani giocano a dadi per prendersi a sorte la tunica. Si sta consumando una tragedia e chi ha responsabilità discute d’altro. Così, da lontano, sembra la nostra terra. Discutere, parlare d’altro o parlare semplicemente attorno ad un problema pare essere tipico della nostra cultura. Non quello di risolverlo. Di mettersi all’opera. Ricordo anni fa in Francia, mentre in patria si facevano conferenze sulla famiglia e la sua importanza, lì ad ogni passo della vita quotidiana si poteva osservare qualcuno con un tesserino “magico” con scritto “famille nombreuse” (da tre figli in su), per avere tutte le facilitazioni del caso. Stupiva constatare come una società laica in qualsiasi istante fosse così concretamente sensibile alla famiglia. Buddha presenta un esempio eloquente del suo cammino religioso quando parla di un guerriero colpito da una freccia: questi si concentra ad estrarre la freccia che lo ha ferito, non a perdere tempo nel chiedersi da dove viene, chi l'ha tirata, com'è fatta, di che tribù porta i colori. È l’agire che risolve e fa avanzare.

 

Oltre a questa divaricazione tra il dire e il fare, per uno sguardo da fuori ne esiste un’altra ben più particolare. È una logica sotterranea, una dinamica, un’onda lunga. Ed è il preferire ormai da molti anni dinamiche di morte, piuttosto che quelle di vita. Negli occhi di molti di noi all’estero si legge appunto un interrogativo come questo: “Ma dove va a sbattere la nostra bella Italia?!”. Paradossalmente è ferma, inceppata, sotto i più differenti profili. Se ne può affastellare agevolmente qualcuno. Da anni ormai avere una famiglia numerosa è considerato un problema, ci si riduce spesso a un solo figlio. Si costata poi statisticamente il fenomeno della denatalità, quando i morti superano i nati. Senz’altro questa non è una dinamica di vita per un Paese. Una terra culla dell’arte e della classicità si vede ultimamente piazzata agli ultimi posti in Europa nel sostenere questo aspetto congeniale e tipico della nostra cultura. Non si coltiva e non si accompagna la nostra genialità, il nostro stesso talento. In tantissimi campi o settori tra efficienza o apparenza generalmente viene preferita la seconda. Che le cose, le realtà, le istituzioni funzionino non interessa molto, almeno in varie parti d’Italia.

Se poi si osserva, con uno sguardo da fuori, come venga affidata la cosa pubblica in questi ultimi vent’anni a chi ama erigere a sistema la regola d’oro “fare i propri interessi”, si può intuire dove porti questa dinamica amara. Tutto si vende, tutto si compra. Anche le persone diventano merce, perfino i parlamentari. Ultimamente un’altra forza politica giovane – che ha captato e concentrato la disperazione della nostra gente - sembra giocare con un atteggiamento di inconclusione, di isolamento, di autosufficienza. Sembra continuare inutilmente quella “pars destruens”, incapace di impegnarsi nella parte complementare e successiva, come spiegava il filosofo Bacone, la “pars costruens”. Sì, un raffinato francese, quando vivevo in Francia, qualora si parlasse di italiani usava ripetere come un ritornello: “Ah les Italiens!... teatranti... commedianti...” Faceva sorridere, amaramente.

In questi mesi migliaia di giovani italiani vengono all’estero o piovono a Londra in cerca di fortuna. Ci si chiede come una nazione possa prendersi il lusso infelice di preparare per anni un diplomato o un laureato e poi vederselo partire alla disperata per entrare semmai nel mercato altrove. Così perfino l’Australia e la Nuova Zelanda, terre lontanissime, incantano i nostri giovani. Sono decisamente dinamiche di morte che un Paese imbocca.

Marcello, invece, siciliano, da quarant’anni a Londra, spontaneamente vi confessa: “Ogni volta che sono in Italia devo litigare... Vado a comperare un pacchetto di sigarette e stanno chiaccherando... scusa potete smettere e venirmi a servire?!” gli tocca sbottare dopo un po’. Forse, in fondo, è questo che è scomparso da noi: il senso dell’altro. Il senso degli altri. Il valore di una comunità. Esiste solo il mio io e tutta la libertà possibile.

Da poco, poi, è arrivato da lontano un nuovo papa. Pare aggiungersi al nostro popolo come quello straniero che si aggiunse ai due discepoli di Emmaus nel loro cammino. E, come allora per loro, ci fa capire la nostra storia, ci fa rileggere insieme il nostro percorso. Ricordando, per esempio, quanto è grande aver avuto proprio tra di noi il più bello dei figli di Assisi, Francesco. Quanto è vera la testimonianza di una Chiesa povera che si dedica ai poveri. Abbiamo adorato, invece, per anni il denaro, tanto da diventare il nostro idolo. Il centro dei nostri discorsi. Il cuore dei nostri interessi.

Preferire continuamente dinamiche di morte a quelle di vita significa togliersi la vita con le proprie stesse mani. Un istinto suicidario per un Paese. Forse non lo si è ancora capito, commentava giorni fa un emigrato italiano, forse non si è ancora toccato il fondo. Capire, così, la triste verità di questi anni e la zavorra di ogni genere che ci impedisce di cantare con un indimenticabile Modugno: “Volare!”

 

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